XII.

Ludovico Ariosto

1. La vita

Ludovico Ariosto nacque l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi, reggiana, e dal ferrarese Nicolò capitano della fortezza di Reggio e, in seguito ai trasferimenti del padre quale alto funzionario degli Este, passò presto a Ferrara, città della sua famiglia e capitale del ducato estense, trascorrendovi dal 1482 in poi la sua fanciullezza, adolescenza e gioventú, prima in condizioni di notevole agio e poi – dopo la morte di Nicolò nel 1500 – in una situazione difficile e complicata dalla sua responsabilità di figlio maggiore di una grossa famiglia e dalle controversie legali inerenti a questioni di eredità e di rapporti economici con altri rami della casata. E cosí – dopo anni spensierati e facili, dedicati prima a studi di preparazione umanistica, poi a studi giuridici non congeniali, cui l’aveva avviato la volontà paterna, e infine, dal 1494 in poi, allo studio e all’attività umanistica e letteraria in cui ebbe soprattutto maestro Gregorio da Spoleto – il giovane dové combinare la sua vocazione letteraria e la sua partecipazione attiva alla vita elegante e culturale della vivacissima società ferrarese con le cure gravose di amministratore dei beni familiari e con impieghi al servizio dei duchi di Ferrara. Impieghi presso il fratello minore del duca Alfonso, il cardinale Ippolito (dal 1503 al 1517), che andavano assai al di là di quelle prestazioni di cortigiano letterato piú a lui adatte e piú da lui desiderate e si configuravano in svariate, pesanti, spesso umilianti mansioni di accompagnatore, messaggero, diplomatico e a volte cameriere del suo difficile e irrequieto signore. Piú volte egli dovette compiere missioni delicate e pericolose, come quelle che lo portarono a Roma presso il terribile papa Giulio II (il quale lo avrebbe minacciato di farlo gettare nel Tevere!), a giustificare e discolpare il cardinale Ippolito o in genere gli estensi per singoli atti spiaciuti al papa o per la loro politica filofrancese, e che lo costrinsero, nel 1512, a fuggire da Roma insieme al duca Alfonso, inseguiti dagli sgherri pontifici.

Si capirà cosí come l’Ariosto cercasse, con scarsa fortuna, mezzi di sussistenza o impieghi piú adatti insieme al suo decoro personale, alla sua prepotente vocazione letteraria, al suo bisogno di una vita piú sedentaria, specie quando egli si legò in un rapporto praticamente coniugale – anche se solo assai tardi sancito da un matrimonio segreto per non perdere alcuni piccoli benefici ecclesiastici che richiedevano ufficialmente la sua osservanza di obblighi derivanti dagli «ordini minori» – con Alessandra Benucci vedova Strozzi, compagna fedele e amata di tutta la sua vita.

E si capirà cosí come quando, nel 1517, il cardinale Ippolito, nominato vescovo di Agria in Ungheria, voleva condurlo con sé in quel lontano paese, egli si rifiutasse di seguirlo dimostrando in quell’occasione il fondo di energia e dignità del suo carattere spesso celato sotto la condiscendenza, la pazienza, ma pur pronto a rivelarsi quando entravano in giuoco le stesse ragioni della sua vita, dei suoi affetti essenziali, del suo lavoro poetico, del suo «onore».

Ma anche il nuovo servizio a Ferrara alle dirette dipendenze del duca Alfonso, anche se meno gravoso e piú dignitoso, non si dimostrò adatto a risolvere la sempre difficile situazione economica di Ludovico, che cosí fu costretto, nel 1522, ad accettare l’incarico economicamente vantaggioso, ma estremamente difficile, di governatore della Garfagnana: il lontano possesso estense, chiuso fra diversi altri stati e aggravato da una eccezionale condizione di miseria e di turbolenza interna. In Garfagnana l’Ariosto rimase tre anni in un periodo doloroso della sua vita per la lontananza dall’amata Ferrara e dalla sua donna e per l’interruzione del suo lavoro poetico, ma anche assai significativo per le doti di energia, di prudenza, di intelligenza che il poeta vi dispiegò cercando – e in parte riuscendovi – di far rispettare la legge – malgrado i pochi mezzi a disposizione e lo scarso appoggio del duca – in un paese infestato dai briganti, diviso tra fazioni ostili, circondato da stati gelosi e litigiosi, oppresso da una miseria che suscitava la sua umanissima pietà.

Solo nel 1525 l’Ariosto poté ritornare a Ferrara e sistemare la sua vita in una condizione piú propizia ai suoi desideri e alla sua precoce vecchiaia. Infatti, col frutto della sua attività di governatore e con la parte del patrimonio paterno finalmente diviso con i fratelli e sottratto alle vecchie liti giudiziarie, egli poteva, nel 1529, acquistarsi una casa modesta e comoda, nella tranquilla contrada di Mirasole. Una casa che tuttora si può visitare, fortunatamente scampata alle bombe dell’ultima guerra, in una contrada da quelle quasi interamente distrutta, e che tanto suggerisce al visitatore sull’ambiente propizio – fra armonica eleganza e assenza di ogni fasto superfluo – che l’Ariosto seppe creare alla sua ultima operosità poetica e alla sua vita senile: una vita confortata di tranquilli affetti, di amicizie provate, di prestigio consolidato nella città e in tutta Italia, di incarichi onorevoli e poco fastidiosi (qualche ambasceria e qualche breve viaggio in compagnia del duca in vicine città, o incarichi di apprestamenti di spettacoli teatrali) in quella città di Ferrara in cui egli tanto aveva volentieri vissuto e in cui si spense ancor prima dei sessant’anni, il 6 luglio 1533.

2. Vita interiore: l’«Epistolario»

Già nell’esporre gli essenziali dati della biografia ariostesca abbiamo avuto modo di rilevare come l’Ariosto, mentre aspirava ad una vita propizia alla attuazione della sua formidabile vocazione poetica in condizioni di agio modesto e decoroso, nell’esercizio di affetti essenziali (amore, amicizia), non fosse affatto quella specie di pigro, pacioccone, di idilliaco sognatore infastidito della realtà e degli impegni su cui certa tradizione ha esclusivamente puntato dimenticando le doti di acuta intelligenza e di vivo interesse per la vita reale, di capacità di azione e di senso profondo dell’onore e dei valori che non solo vivono profondamente nelle sue opere e soprattutto nel suo grande poema, ma già furono esercitate nella vita concreta dell’uomo pur fra penose sopportazioni e sofferte accettazioni di mansioni mortificanti e inadeguate al suo alto valore.

Qualità anche di volitività, di decisione, di giusto senso della propria dignità e di intelligente collaborazione alla politica della corte estense, che il «gentiluomo» rinascimentale poté attuare sia nella stessa attività militare (partecipando a vari fatti d’arme e forse alla stessa famosa battaglia di Ravenna del 1512), sia in quella attività di governatore della Garfagnana di cui tanto ci dicono le numerose lettere di quel periodo (sono 156 sulle 214 che di lui ci rimangono), cosí belle e nitidamente efficaci anche sul piano di una scrittura sicura, veloce, funzionale alle cose da dire, e cosí significative per la nostra conoscenza dell’uomo, della sua intelligenza, della sua capacità decisionale, della sua gentile e nobile umanità. Ed è quest’ultima qualità che piú deve colpire il lettore in contrasto con certe immagini di un Ariosto scettico e sempre sorridente e ironico, aprendo spiragli profondi sulla sua genuina vibrazione di commozione e pietà per gli uomini e specie per quei «poveri uomini» (miseri contadini o carrettieri) di cui egli conobbe la squallida povertà, le umili pene indifese e causate dalla prepotenza di vari potenti, delle bande faziose, dell’esosa fiscalità amministrativa e condotti spesso dalla loro assillante necessità, dalla loro ignoranza di leggi confuse e durissime a piccole trasgressioni sproporzionatamente punite. È in loro favore che molte volte l’Ariosto scrive lettere di giustificazione e di supplica al duca o ai reggitori degli stati confinanti trovando, in modi semplici e antiretorici, accenti commossi e sdegnati. Cosí come nelle lettere dirette al duca per invocare sostegno di armigeri e decisioni inequivoche contro le bande brigantesche e faziose che infestavano la Garfagnana, o per esporgli i suoi provvedimenti e i suoi piani di azione per imporre la giustizia o la legge, ben risaltano la sostanziale energia e l’intelligenza pratica e attiva dell’Ariosto, desideroso di altro genere di vita, ma ben impegnato – poiché cosí voleva la sua attuale condizione – in compiti e doveri esercitati fino a certa machiavellica intelligenza delle leggi, della forza e dell’azione pratica.

Infine nella vita interiore e nella natura di questo grandissimo poeta dovrà rilevarsi, coerentemente a quanto abbiamo già detto, che lo stesso suo profondo slancio fantastico, la capacità di creare nel suo capolavoro, l’Orlando Furioso, una specie di realtà superiore in cui la libera e creatrice fantasia spazia in luoghi e tempi smisurati e continuamente mutevoli, presuppone una sicura base di esperienze effettive della realtà, di tempi e luoghi reali, di condizioni concrete di vita, di persone, di affetti.

Sicché la sua grande poesia nascerà non tanto da un sogno ozioso ed evasivo, quanto da un complesso rapporto fra realtà sperimentata e fantasia poetica ed essa perciò avrà sempre, nella sua sublime libertà, un calore di esperienza e di vita concreta, e il suo ritmo perfetto sarà come la traduzione poeticamente profonda e poeticamente originale del ritmo vitale tanto schiettamente sperimentato dall’Ariosto non solo sui libri, ma nella vera e concreta realtà. E a questa profonda realizzazione poetica di un’originalissima unione di realtà e fantasia l’Ariosto giungerà non per una specie di improvviso e solitario miracolo e quasi senza sforzo e lavoro, ma attraverso una complessa operazione artistica assiduamente provata e preparata nelle cosiddette opere minori che si ricollegano alla formazione del poeta o accompagnano la laboriosa costruzione del capolavoro svolgendo una complessa rete di direzioni espressive inerenti alle esigenze dello scrittore e al suo vivo, originale rapporto con le tendenze della letteratura del suo tempo. E anche questo va ben sottolineato: l’Ariosto non è un solitario creatore, ma un grande poeta che vive e porta a nuova conclusione poetica vive e storiche esigenze della civiltà, della cultura e della letteratura umanistico-rinascimentale e tanto piú perciò riesce a creare un’opera in cui i contemporanei poterono riconoscere le loro stesse aspirazioni realizzate in un modo originalissimo e pure per loro tutt’altro che incomprensibile ed estraneo.

3. Le opere minori: liriche latine ed italiane; le commedie

L’attività lirica si svolge lungamente entro il complesso esercizio artistico dell’Ariosto e ne costituisce anzitutto la prima piú generale base formativa, con le numerose liriche in latino a cui il giovane letterato prevalentemente si applicò (anche se non mancò di scrivere in volgare dei componimenti poi perduti sul tipo di quelle «baje» goliardiche che celebravano scherzosamente incidenti e avvenimenti della vita studentesca e cittadina) nel decennio fra 1494 e 1504 circa, quando con simili liriche egli seguiva il forte impulso umanistico della società letteraria ferrarese, rafforzava concretamente la sua formazione latina e la sua esperienza dei classici cosí importante – anche se priva della conoscenza del greco – per la sua opera maggiore, che tanto ricavò dalla lettura di classici e dall’utilizzazione originale dei miti antichi (si pensi all’episodio di Cloridano e Medoro esemplato su quello virgiliano di Eurialo e Niso o a quello dell’abbandono di Olimpia da parte di Bireno ispirato da quello ovidiano di Arianna tradita da Teseo).

Ma soprattutto l’esercizio delle liriche latine, pur aperto indubbiamente a tradurre elementi e affetti dell’esperienza vitale del giovane artista (i primi amori, oscillanti fra esiti di desiderio appagato e di delusione per l’infedeltà femminile, gli affettuosi rapporti di amicizia con dotti e cari maestri e compagni di lieta vita giovanile, il piacere dei paesaggi campestri, le occasioni di feste e avvenimenti della corte estense), serví come forma di apprendistato stilistico e tecnico, come prova di capacità espressiva appoggiata dall’esempio e dalla scuola formale dei lirici ed elegiaci latini (Catullo, Ovidio, Properzio, Tibullo).

Tali capacità vennero poi applicate con maggiore e piú matura ispirazione personale nelle liriche italiane, con cui l’Ariosto accoglieva gli stimoli della lirica italiana di fine Quattrocento e di primo Cinquecento, fra quelli del gusto coloristico e psicologico del Boiardo lirico, quelli del gusto madrigalistico, piú musicale e concettoso, dei «lirici cortigiani» (come il ferrarese Tebaldeo), e quelli piú nuovi del petrarchismo del Bembo, attivo in Ferrara nel 1498-1499 e nel 1502-1503, e ben presto maestro anche per l’Ariosto di una lirica amorosa di fondo platonico e di un linguaggio poetico piú regolare e puro che verrà poi a costituire la base della revisione linguistica del Furioso nella sua ultima edizione.

In realtà, malgrado l’esempio del petrarchismo platonizzante del Bembo, l’Ariosto solo raramente aderí ai toni solenni e severamente idealistici di quel modello e prevalentemente egli intrecciò agevolmente nelle sue rime la spinta nobile e idealizzante del petrarchismo e del platonismo con un suo proprio gusto gentilmente edonistico e sensuale, arioso e caldo, che trova svolgimenti piú diretti in alcuni bei «capitoli» in terzine (che rievocano scene e ricordi di amore francamente sensuale risolvendole in immagini illuminate da un sorriso limpido e sereno, in sogni, incantati e soavi), ma insieme si rivela anche nella grazia melodica e ironica dei madrigali o nella leggerezza aerea e sensibile di alcuni sonetti, esemplari per una originalissima fusione della tensione idealistica platonica e della fondamentale tendenza ariostesca a esaltare affetti nobili e gentili, ma mai privati della loro umana radice sensuale, della loro fondamentale base di affetti naturali e mondani.

Anche l’attività teatrale rappresentò per l’Ariosto un impegno artistico di lunga durata, preparato da un vivo interesse per il teatro che può riportarci addirittura alla fanciullezza o almeno all’adolescenza del poeta, quando egli avrebbe composto una tragedia, Tisbe, perduta, e si dedicò a volgarizzamenti e rimaneggiamenti di commedie di Plauto e Terenzio, esercitandosi anche come attore, regista, organizzatore di spettacoli teatrali per la corte estense, che fin dagli ultimi decenni del ’400 era stata promotrice di vita teatrale entro le direttive di una intelligente politica culturale e mecenatesca vasta e proficua con cui gli Este appoggiavano la loro affermazione politica in Ferrara e in Italia.

Su questa direzione di espressione teatrale l’Ariosto si impegnò a lungo con la creazione di cinque commedie (la Cassaria, i Suppositi, il Negromante, la Lena, gli Studenti da lui lasciati incompiuti e terminati dal fratello Gabriele e dal figlio Virginio) che sviluppano – in un’opera di cauta e prudente riforma teatrale – un tipo di commedia (e si noti subito che la commedia, non la tragedia, interessa l’Ariosto) appoggiata sui modelli latini di Plauto e Terenzio, ma progressivamente resa piú originale mediante il riferimento della scena e di personaggi a luoghi e situazioni contemporanee e una piú vivace immissione di un’atmosfera di vita quotidiana e reale.

Si trattava di una commedia «dotta» o «erudita» che intendeva – come dicevo – rifarsi all’esemplarità perfetta dei comici antichi, ma che insieme si distingueva dalla loro semplice e pedantesca imitazione e sempre meglio – al di là delle prime e piú timide commedie del 1507-1509: Cassaria e Suppositi – si configurava nelle forme di una «imitazione originale», come si disse, che costituisce una sicura forma di avvio del nuovo teatro rinascimentale con cui l’Ariosto assume una ben decisa importanza nella storia della commedia cinquecentesca, anche se sempre ad un livello di forza e genialità tanto minori rispetto a quelli del suo grande poema.

Ciò avviene sempre meglio nel Negromante (composto fra 1509 e 1520), in cui campeggia un felice personaggio, il negromante Jachelino, che si avvale della sua presunta arte magica per attuare truffe e imbrogli canaglieschi, e intorno ad esso si snoda una vicenda comica e realistica, cui corrisponde un dialogo abile e nutrito di quel caldo senso del quotidiano e dell’umano che è fondamentale in tutta la poesia ariostesca, scritta in quell’endecasillabo sdrucciolo (abbandonata cosí la prosa usata nella prima redazione delle due prime commedie anch’esse piú tardi riscritte in sdruccioli) con cui l’Ariosto, mentre voleva raggiungere una certa somiglianza con il trimetro giambico, verso tipico della commedia classica, tendeva a realizzare l’esigenza di un dialogato piú ritmico e pur non lontano dalle inflessioni, pause, possibilità comiche e ambigue del discorso quotidiano e comune.

E se poi tanto meno felice – e perciò abbandonata dall’autore – appare la commedia Gli studenti iniziata nel 1518 (e completata in due versioni diverse e con l’alternativo titolo di Scolastica, dal fratello Gabriele e dal figlio Virginio), la via di un cauto, ma vivo realismo e del ritmo comico quotidiano trova il suo esito piú sicuro e armonico nella Lena, rappresentata nel 1528 e poi di nuovo rappresentata nel 1529 con l’aggiunta di due scene (la cosiddetta Lena caudata).

È questa, senza dubbio, la migliore commedia dell’Ariosto, quella in cui il poeta realizza una piú continua e sicura atmosfera realistica sulla base di un caso di vita, sintomatico per l’acutezza dello sguardo ariostesco entro zone di corruzione e di bassezza morale indagate e rappresentate senza drammaticità e senza sdegni impetuosi, ma non senza la viva capacità di farne risaltare l’ambigua e amara comicità: specie nei personaggi del vecchio Fazio, con la sua passione torbida e lercia, della protagonista, Lena, prostituta e mezzana ma pur capace di risentimento contro il marito, Pacifico, che ne sfrutta la vergognosa attività.

Il comico non sfocia nel dramma e l’azione anzi si conclude lietamente con le nozze della fanciulla di cui Fazio è tutore con il suo innamorato e con la ripresa dei torbidi rapporti tra Fazio e Lena dei cui vantaggi economici riprenderà a godere tranquillamente Pacifico. Ma il mondo comico ariostesco si è fatto piú complesso e venato di vibrazioni piú risentite, si è venuto maggiormente distaccando dalla piú facile vicinanza a modelli classici, e cosí la Lena conclude felicemente una lunga esperienza artistica, che contribuisce ad arricchire e articolare la complessa realtà dell’opera ariostesca, mentre meglio ci fa capire nello stesso Furioso la presenza di una genuina capacità comica e teatrale, un gusto della scena e del dialogo sin nell’impostazione di recitazione e di mimica di certi suoi personaggi e situazioni.

4. Le satire

Ancor piú interessanti fra le opere minori sono le sette Satire in terzine che si collocano nella piena maturità del poeta (fra 1517 e 1525) e trovano la loro prima molla biografica nella vicenda del rifiutato viaggio in Ungheria al seguito del cardinale Ippolito e nell’amara riconsiderazione che il poeta fu indotto a fare della propria vita e della propria situazione, svolgendo in questi componimenti epistolari satirici un frammentario, ma pur intimamente organico ripensamento sui propri casi, sui propri ideali, sulla società del suo tempo, sulla natura umana, e realizzandolo in una dimensione artistica di tono medio, conversevole e piana, ma insieme capace di impennate di sdegno, di movimenti apertamente comici, di accenti commossi, di sorridenti e amare riflessioni di saggezza in apologhi e favole di alta e disincantata leggerezza poetica.

Questo punto deve essere ben chiaro al lettore delle Satire: esse non sono un semplice documento biografico messo in versi, non sono una semplice confessione o narrazione di singoli avvenimenti e incidenti della vita del poeta (anche se sono tagliate nella forma dell’epistola occasionale e indirizzate a precisi personaggi, amici o parenti dell’Ariosto), né la loro apparente facilità discorsiva è frutto di una rinuncia all’arte, una specie di prosaico e prosastico abbandono ad una cronaca conversevole ed epistolare. In effetti quella «facilità» è una «difficile facilità», quel tono medio affabile, confidenziale e libero, è il frutto di una intenzione artistica complessa e originale, che mirava appunto alla realizzazione di un tono medio (stimolato anche da esempi classici come i Sermones di Orazio), antiretorico e antieroico e pur non prosastico e non volgare, capace di passare dal realistico al fiabesco, dall’ironico all’appassionato, e di tradurre in quel tono il sentimento ariostesco della propria esperienza vitale e il sapore schietto di cose e affetti concreti fuori di ogni convenzione e falsificazione ipocrita e retorica.

Cosí questi genuini componimenti poetici ci rivelano insieme i procedimenti di un’arte complessa ed esperta e il fondo dell’umanità ariostesca, della sua saggezza disillusa e ironica, amara, e a volte severa, ma non duramente pessimistica, ostile ad ogni moralismo ipocrita e intransigente e ascetico, dato che l’Ariosto fondamentalmente ha compreso le essenziali leggi della vita e gli essenziali moventi della natura umana, irridendo quanti credono di poter facilmente recidere quegli istinti che vanno invece educati e nobilitati con la cultura, la gentilezza, la poesia.

Come egli dice in una terzina della quarta satira, fondamentale per comprendere la visione ariostesca della vita cosí chiaramente antiascetica, antimisantropica, nobilmente mondana e socievole, tollerante e non perciò meschina e cinica:

Tu forte e saggio che a tua posta movi

quegli affetti da te, che in noi nascendo,

natura affige con sí saldi chiovi.

In questa direzione di rappresentazione di affetti e cose concrete e schiette le Satire offrono una varia e incantevole serie di macchiette comiche ed ironiche, di situazioni amaro-sorridenti, di invettive sdegnose, ma ironicamente riequilibrate, di paesaggi ariosi e densi, di squarci e quadri di vita contemporanea, per salire poi nei numerosi apologhi fiabeschi, che intendono meglio rivelare i motivi della spregiudicata e tollerante saggezza ariostesca, ad una singolare levità fantastica e musicale, ad un tono flautato e suggestivo che pur conserva nella sua piú alta dimensione i riflessi della densità e della concretezza dell’esperienza e della realtà.

Con una unione di fantasia e realtà che, pur nella misura piú limitata delle Satire, si avvicina a quel tono di incanto soprareale e riscaldato di affetti ed esperienza concreta che è il segreto piú profondo della grande poesia del Furioso.

5. L’«Orlando Furioso»

Al centro, al culmine ideale della complessa tensione poetica ariostesca, si trova l’imponente creazione del poema cavalleresco e romanzesco in ottave, l’Orlando Furioso, capolavoro dell’Ariosto e insieme capolavoro della poesia rinascimentale. L’Ariosto aveva già pensato, fra 1500 e 1504, ad un poema epico in onore di Obizzo d’Este, antenato dei suoi signori (di cui resta una parte in terzine), ma quel tentativo di epica vera e propria fu presto abbandonato e l’Ariosto lentamente venne elaborando l’idea di un poema a lui piú congeniale: la sua ideazione dové esser completa nel 1507 e nel 1509 ne era terminata la stesura in quaranta canti, anche se solo nel 1516 il Furioso fu perfezionato e pubblicato, per esser ben presto ripreso e corretto (e pubblicato in una seconda redazione nel 1521) e ancora piú profondamente riveduto e ampliato con l’aggiunta di altri sei canti per esser pubblicato in una terza e ultima redazione nel 1532 (su cui l’Ariosto ritornava ancora fino alla morte con ulteriori interventi che testimoniano della incontentabilità del grande poeta e del suo formidabile impegno nell’opera fondamentale della sua vita).

In quell’opera, che apparentemente si presentava come una continuazione del poema del Boiardo, l’Orlando innamorato, cui si lega proprio al punto in cui quello si era interrotto (quando Angelica veniva affidata da Carlo Magno al duca Namo per esser data in premio al piú valoroso dei suoi pretendenti – Orlando e Rinaldo – nella prossima battaglia fra cristiani e musulmani), l’Ariosto in realtà immetteva una formidabile originalità e profondità poetica, la cui identificazione e spiegazione critica ha assillato per secoli critici italiani e stranieri stimolando interpretazioni e discussioni di altissimo livello.

Infatti quel capolavoro, che pur poté aprirsi all’amore di lettori popolari e alimentare il sentimento poetico di vastissimi strati di pubblico, è tutt’altro che facile e assai diverso da quella opera di divertimento per cavalieri e dame quale l’Ariosto stesso la presentava in una sua supplica al doge di Venezia in occasione di una delle sue edizioni.

La difficoltà di giustificare criticamente l’impressione complessa e profonda di una poesia cosí varia, ricca di toni, continuamente trapassante da situazioni ironiche e comiche a situazioni elegiache ed epiche, incessantemente creatrice di paesaggi, figure, episodi innumerevoli e fittamente intrecciati, consiste anzitutto nella insufficienza di legarla tutta ad un motivo centrale ed organico, ad una prospettiva ideologico-poetica chiara ed unica. Tanto che il De Sanctis pensò a un certo punto di trovarne il segreto in una posizione di «arte per l’arte» e in una disposizione di assoluta oggettività di rappresentazione.

Ma certo piú profonda e fondamentale può apparire la celebre formula del Croce che individuò il motivo ispiratore del poema nell’amore ariostesco per l’«armonia cosmica», ricollegandolo alla piú generale aspirazione rinascimentale per la vita umana e universale in tutta la sua ricchezza di contrasti e di diversità dialetticamente raccordati appunto ad un risultato di armonia complessa, ad un ordine che nasce dall’incontro libero e spontaneo di casi, vicende, passioni fra loro diverse e spesso contrastanti e addirittura contraddittorie.

Quello che però va subito nettamente chiarito di fronte a questa alta formula critica è che l’armonia di cui parlava il Croce va intesa non come una immobile perfezione in cui la varietà e le forze vive del poema si siano come raggelate e fissate in una specie di Olimpo distaccato dalla vita e dalla realtà, ma come un’armonia estremamente mossa, dinamica, che riflette nella sua perfezione fantastica e soprareale tutta l’intensa e varia ricchezza della realtà e della vita, tutto quel calore di affetti e cose concrete che lo spregiudicato e acutissimo sguardo ariostesco aveva, con estrema libertà, colto e individuato nella loro naturale consistenza e necessità.

Cosí come, se la meta e la condizione della poesia è per l’Ariosto il «cor sereno» (come egli dice nella satira quarta) capace di armonizzare e dominare poeticamente gli aspetti piú diversi e contrastanti della realtà, non perciò l’armonia ariostesca può essere scambiata per il risultato di un facile ottimismo e di un giuoco fantastico tutto appagato di se stesso, privo di una intuizione acuta e anche amara della durezza della vita, dei vizi che albergano nel cuore degli uomini, e, storicamente, della stessa grave e crescente crisi che l’Italia soffriva pur nella splendente pienezza di vita, di cultura, d’arte del Rinascimento.

L’Ariosto ben sapeva come la vita in genere sia spesso «assai piú oscura che serena» (com’egli dice nell’inizio del canto quarto del poema) e ben aveva compreso come con la calata di Carlo VIII e con l’avvio delle guerre fra francesi e spagnoli in Italia si fosse rotto l’equilibrio del secondo Quattrocento, come egli dice nell’ottava seconda del canto XXXIV alludendo appunto alla celebre calata di Carlo VIII.

Il bel vivere allora si sommerse,

e la quiete in tal modo s’escluse,

che in guerre, in povertà sempre e in affanni

è dopo stata, ed è per star molt’anni...

Solo che, proprio avvertendo i primi sintomi di una crisi che avrebbe poi nel secondo Cinquecento distrutto la civiltà rinascimentale e sentendo con acuta coscienza l’elemento di dolore insito nella stessa vita dell’uomo, l’Ariosto volle e seppe rispondere a tutto ciò con la forza della sua fantasia, con l’armonia della sua poesia, come volendo cosí sostenere, da poeta, la splendida civiltà in progressiva crisi e una visione vitale non ottimistica, ma virilmente serena, realistica e idealistica insieme, priva di quel ritorno e ricorso a motivi religiosi e trascendenti che saranno invece cosí presenti nel poema del Tasso nell’epoca di crisi ormai matura, nell’autunno tormentoso del Rinascimento.

A questa ispirazione fondamentale corrisponde, in certo modo, la stessa scelta dell’argomento cavalleresco-romanzesco, che – mentre ricollegava l’Ariosto al maggiore poeta quattrocentesco della corte estense, il Boiardo, e al forte amore di quella corte per poemi e leggende cavalleresche – permetteva al poeta del Furioso di esercitare insieme su quella materia avventurosa, su quel mondo di amori, di avventure, di errabonde vicende guerresche e cavalleresche, la sua superiore intelligenza, il suo sorriso, la sua ironia di uomo di una civiltà matura e spregiudicata e insieme il suo vagheggiamento, la sua attrazione verso quel libero e variopinto movimento di casi, figure, paesaggi, ricco di energia, di gentilezza, di passioni e insieme di irrazionalità e di libertà, cosí adatto alla sua stessa intuizione e aspirazione ad una vita e ad un ritmo vitale incessantemente mobile, reale e fantastico, mai irrigidito e mortificato da norme astratte, da regole convenzionali, e cosí capace di costruirsi in una superiore armonia mossa e densa.

Perciò la stessa trama del poema, cosí complicata e arricchita di infiniti episodi minori e di vere e proprie novelle (e che suscitò spesso l’accusa di disordine caotico da parte di lettori troppo legati ad ideali di unità e di chiaro svolgimento di azione), è in realtà volutamente cosí intrecciata, interrotta, sospesa e ripresa, appoggiata a infiniti centri e personaggi (anche se le si può trovare un centro geografico, Parigi, e individuare, con estrema semplificazione, tre linee fondamentali: la guerra fra saraceni e cristiani, l’amore e la pazzia di Orlando che dà il titolo al poema, la storia di Bradamante e Ruggero, mitici capostipiti degli Este), perché l’Ariosto non voleva narrare una storia semplice e compatta, legata ad alcuni personaggi fondamentali da approfondire con minuto lavoro psicologico, ma voleva invece creare un movimento aperto e libero, regolato solo dagli effetti di contrasto e di superiore armonia, che traducesse poeticamente la sua intuizione della vita altrettanto libera e armonica, avversa ad ogni schema e ad ogni estrinseca costrizione. E in tal modo, in effetti, il Furioso suscita nel lettore un profondo interesse, un fascino e un senso di libertà, fantastica e vitale, un amore per la fantasia e per la realtà. Cosí come stimola un eccezionale sentimento della inesauribile varietà della vita e della forza ravvivante e fertile della poesia.

Impossibile è riassumere in breve la trama complessa del Furioso. Tuttavia l’azione si può raccogliere, come accennavo, intorno a tre nuclei fondamentali. Il primo è costituito (e dà il titolo al poema) dall’amore di Orlando per la bella Angelica e dalla sua pazzia quando gli si rivela il definitivo crollo delle sue speranze a causa del matrimonio della donna amata con Medoro. Il secondo, che ha il suo centro maggiore nella città di Parigi, ma insieme si sposta nei luoghi delle varie battaglie del poema, è costituito dalla guerra fra cristiani e musulmani, conclusa nella tenzone di Lipadusa. Il terzo, infine, piú legato all’intento encomiastico e cortigiano (dato che dalle nozze di Bradamante e di Ruggero, discendente di Ettore, avrà nobile e favolosa origine la casa degli Estensi), sviluppa le vicende dell’amore della guerriera, sorella di Rinaldo, e del guerriero saraceno convertito poi al cristianesimo.

Ma questi tre nuclei fondamentali del poema si snodano attraverso una serie di episodi che s’intrecciano mirabilmente, e che in questo vario succedersi e accavallarsi costituiscono la vera struttura dell’opera. È pertanto utile avere una nozione meno sommaria del loro vario diramarsi. L’Ariosto, s’è accennato, muove dal finale interrotto del poema del Boiardo, il quale aveva condotto l’esercito saraceno sotto le mura di Parigi. In tale occasione Angelica, che era la figura intorno alla quale tutto il poema boiardesco ruotava, veniva affidata da Carlo Magno al duca Namo di Baviera e promessa in premio a chi dei due piú valorosi paladini, Orlando e Rinaldo, avesse ucciso maggior numero di nemici. Questa la situazione generale e la condizione particolare di Angelica da cui l’Ariosto prende le mosse. Ma invece di proseguire la narrazione delle vicende maggiori, e dunque qui della battaglia, egli subito è attratto da un altro tema. Cosí, quando Angelica si accorge che le cose volgono al peggio per i cristiani, pensa che è il momento buono per fuggire. Tutto il primo e buona parte del secondo canto hanno come argomento questa fuga; ma, come in essa si inseriscono una quantità di avvenimenti diversi e in sostanza di episodi secondari rispetto all’episodio principale (tuttavia ciò che appare una volta secondario non risulta poi meno rilevante di ciò che sul principio si palesa come principale), cosí si deve dire che essa continua poi per buona parte del poema, fino a che, verso la metà del racconto poetico, Angelica non scompare definitivamente dalla scena. Rinaldo la insegue, ma è sviato da un messo diabolico evocato da un frate che Angelica ha incontrato sul suo cammino e, tornato a Parigi, è inviato da Carlo a radunar soldati in Inghilterra. Abbandonati temporaneamente questi personaggi, l’Ariosto narra di Bradamante che, aiutata dalla maga Melissa, s’impadronisce dell’ippogrifo, dopo aver sconfitto Atlante, e costringe quest’ultimo a far svanire il castello nel quale, per tenerlo lontano della guerra, egli tiene prigioniero Ruggero. Ma questi, appena liberato, vuol cavalcare l’ippogrifo, che lo trasporta ancora lontano da Bradamante, nell’isola di Alcina, la maga che, saziatasi dei suoi amanti, li trasforma in piante e animali. Nuovamente interviene Melissa, che mostra a Ruggero l’indegnità della sua passione, e con lei Logistilla, che gli insegna a cavalcare l’ippogrifo, col quale torna verso la Francia.

Intanto Angelica, sempre inseguita da Orlando che arriva ogni volta troppo tardi nei luoghi in cui ella è passata, viene rapita dai corsari e portata nell’isola di Ebuda, dove dovrebbe essere sacrificata ad un mostro marino. Sopraggiunge Ruggero che con lo scudo magico di Atlante abbacina il mostro, libera Angelica, riparte con lei sull’ippogrifo; quando scende a terra, però, Angelica riesce ad impadronirsi dell’anello magico che Ruggero ha avuto da Bradamante, se lo pone in bocca e cosí si rende invisibile. Anche Orlando giunge in Ebuda, ma non vi trova piú Angelica, bensí Olimpia, che, abbandonata da Bireno, è stata a sua volta offerta in sacrificio al mostro marino; egli libera la donna e uccide il mostro, per riprendere subito dopo la sua ricerca vana.

A questo punto la narrazione torna al tema della guerra. In Parigi cinta da un assedio, nel quale si è distinto per furore Rodomonte, re di Algeri, giungono, protette dal Silenzio, le schiere radunate da Rinaldo in Inghilterra. Esse prendono alle spalle i saraceni, che da assedianti divengono assediati e che si mettono in salvo solo con il generoso sacrificio di Dardinello. Questi, un giovane re saraceno, resta morto sul campo e un suo giovane e oscuro soldato, Medoro, decide di uscire la notte dagli accampamenti per dargli sepoltura. Ma, sorpreso da una pattuglia di cristiani, cade ferito gravemente. Nel luogo giunge Angelica, che, impietositasi del giovane ferito, lo cura, lo risana e s’innamora di lui; con lui, quindi, parte per Barcellona, dove s’imbarcherà per l’Oriente, uscendo definitivamente dalla scena del poema. Anche Orlando, sempre alla ricerca di Angelica, giunge nei luoghi che hanno veduto da poco lo sbocciare dell’amore di Angelica per Medoro e sono proprio i segni lasciati da costoro (i nomi incisi sugli alberi, una scritta sull’entrata di una caverna che ha accolto i due amanti, una gemma data in pagamento da Angelica all’oste che li ha ospitati) a rivelare tutta la vicenda ad Orlando. Esplode allora la sua pazzia: nudo e furioso percorre avanti e indietro l’intera Francia, tutto devastando, finché a nuoto raggiunge l’Africa per lo stretto di Gibilterra ed è lasciato anch’egli, per il momento, mentre il poema passa a svolgere altre vicende.

Atlante ha fatto sorgere per magia un castello, nel quale attira Ruggero per mezzo dell’immagine di Bradamante. È ancora la maga Melissa a dire a Bradamante come potrà far svanire l’incanto: dovrà uccidere colui che gli apparirà sotto le sembianze di Ruggero. Ma essa non ardisce colpire l’immagine dell’uomo che ama. Per fortuna arriva al castello anche Astolfo, il quale è in possesso di un libro di incantesimi che insegna anche come distruggerli. E infatti distrugge il castello, consentendo la nuova riunione di Bradamante a Ruggero; questi però, prima di farsi cristiano, vuole incontrare il suo re Agramante. Cosí i due amanti si dividono nuovamente e, mentre Ruggero s’incammina verso il campo di Agramante, Bradamante torna al castello di Montalbano.

Intanto i saraceni sono tornati ad assediare Parigi, ma l’arcangelo Michele riesce a scovare in un convento di frati la Discordia e la manda nel loro campo, riuscendo a dividere a causa di Doralice, la donna amata da ambedue, Mandricardo e Rodomonte. Anche quest’ultimo impazzisce e lascia il campo; vagabonda qua e là finché si ferma presso Mompellieri, ad una chiesetta alla quale giunge Isabella che porta con sé la bara del suo amante Zerbino. Rodomonte s’innamora di Isabella, ma questa, che è già intimamente disperata, preferisce morire piuttosto che essere sua. Rodomonte allora decide di dedicarsi interamente alla memoria di Isabella, ma vergognoso d’esser vinto in duello da Bradamante si ritirerà per un anno, un mese e un giorno in una grotta. La lotta sotto Parigi però continua, volgendo, soprattutto per il valore di Rinaldo, in favore dei cristiani, tanto che Agramante è costretto a ritirarsi ad Arli in Provenza. Chi però contribuirà in modo determinante alla vittoria dei cristiani sarà il pazzo paladino Astolfo, che impadronitosi dell’ippogrifo, dopo esser disceso all’inferno e salito al purgatorio, volerà sulla luna a recuperarvi, tra un mucchio di cose perdute dagli uomini, il senno di Orlando, che, catturato, è costretto ad annusare da un’ampolla il suo senno, e torna quindi a combattere fino a costringere Agramante a ripassare in Africa. Astolfo dal canto suo opera vari prodigi (trasforma sassi in cavalli e foglie in navigli) che consentono ai cristiani di portare l’assedio a Biserta. Un duello tra tre paladini, Orlando, Oliviero e Brandimarte, e tre saraceni, Agramante, Gradasso e Sobrino, deciderà della guerra. Nello scontro però, che si svolge nell’isola di Lipadusa, oltre ad Agramante e Gradasso, muore Brandimarte, che sarà inconsolabilmente pianto da Fiordiligi.

Il poema si avvia cosí alla conclusione, la quale sviluppa principalmente il terzo dei nuclei che si sono enunciati all’inizio di questo riassunto, l’amore cioè di Bradamante e Ruggero, il quale con animo generoso riesce a superare varie difficoltà e a celebrare le nozze con la donna amata. Nozze turbate ancora dal sopraggiungere di Rodomonte pazzo, che è ucciso infine in duello da Ruggero. Proprio sull’immagine dell’anima di Rodomonte che bestemmiando scende all’inferno si chiude il poema.

6. Motivi e caratteri del poema

Alla creazione di questo formidabile ritmo narrativo-poetico l’Ariosto usò, con ispirazione e arte suprema, infiniti procedimenti: a cominciare dall’originalissimo modo con cui egli strutturò la sua ottava, resa, rispetto ai precedenti poeti che l’avevano adoperata, tanto piú duttile, elastica, snodata e armonica nel musicale esito dei due versi finali. Per non dir poi della tecnica della sospensione che arresta un episodio sul punto di maggior interesse col passaggio ad un nuovo episodio, sollecitando l’interesse del lettore e il suo sentimento di questo ritmo nel suo fluire libero e mai pedissequo e rigido. Secondo il dispiegarsi di questa onda ritmica inesauribile e sempre inventiva e variabile si atteggiano anche i personaggi, che l’Ariosto non vuol tanto approfondire e definire a tutto tondo, ma che, sulla base di alcune loro caratteristiche piú spiccate, si adeguano al tono prevalente degli episodi. E cosí il severo e appassionato Orlando potrà diventare in certi episodi oggetto di ironia e di sorriso da parte del poeta, potrà trasformarsi, nel grande episodio della pazzia, in una figura irrazionale e comica, in una specie di forza naturale capricciosa, e capace di mirabili e fantasmagoriche avventure. O Angelica sarà volta a volta illuminata nelle sue qualità di capriccio e civetteria, nella sua straordinaria e serena bellezza, o nella sua pietà e nel suo innamoramento per il giovane e povero guerriero, Medoro, da lei trovato ferito, e da lei curato e reso suo sposo.

A questo movimento irresistibile contribuisce centralmente quella fusione del naturale e del meraviglioso, del reale e del fantastico che si attua in varia maniera e con forme diverse di altissima e ispirata abilità poetica, trovando come dei concreti simboli in esseri naturali e fantastici come l’Ippogrifo, cavallo e uccello, strumento di voli e trasferimenti straordinari di cavalieri e dame da paese a paese, da continente a continente, o in costruzioni come il palazzo del mago Atlante, nato per incanto magico e poi consistente e splendido come un magnifico palazzo rinascimentale, in cui cavalieri e dame confluiscono e si aggirano vanamente cercando oggetti e persone amate e perdute (quasi simbolo della vana e avventurosa ricerca della felicità nella vita degli uomini) finché scomparirà di colpo in «fumo e nebbia» ad opera di un’altra operazione magica di Astolfo. Tutto cosí nel poema appare insieme fantastico e labile e insieme non ha nulla di astratto e di meccanicamente artificioso, mantenendo sempre una densità e un calore di realtà, sicché il Foscolo poté ben dire che le operazioni piú fantastiche e magiche del poema sembrano effetti della stessa natura.

A questa singolare e affascinante dimensione della poesia ariostesca si adeguano non solo singole vicende e situazioni, ma tutto il paesaggio e la misura temporale in cui l’Ariosto svolge la sua narrazione poetica. Misure temporali e spaziali, ora brevi, raccorciate in luoghi e tempi quasi miniaturisticamente rappresentati, ora dilatati smisuratamente e fantasticamente nei fulminei passaggi da luoghi a luoghi fra loro lontanissimi come su di un’ideale carta geografica velocissimamente percorsa, e con una varietà estrema di paesaggi diversi: dalle brume dei mari del Nord alla «dolce» terra di Francia, con la ricchezza delle sue pianure e delle sue selve, ai deserti aridi della Spagna e dell’Africa settentrionale, a certe città del Levante sontuose e ricche di fascino esotico e pittorico, a paesi totalmente inventati (come la celebre isola di Alcina, beata per il clima dolce e l’esuberanza della sua flora, o la casa del sonno in una valletta «amena» dell’Arabia) e pure – ripeto – rappresentati come naturali e reali.

O sarà quel cielo della Luna, dove Astolfo (dopo la discesa in un inferno bizzarro, in cui l’unico peccato punito rappresentato dal poeta è quello delle donne che non hanno compensato l’amore dei loro innamorati) va a cercare il senno perduto da Orlando impazzito per amore: cielo che si presenta come ingombrato da un coacervo stranissimo di cose perdute dagli uomini e che rappresenta, fantasticamente, uno dei motivi animatori della stessa poesia dell’armonia cosmica nelle sue interne contraddizioni irrazionali e capricciose. È quel motivo dell’ironia e del sorriso ariostesco che anzitutto corrisponde alla lucida e spregiudicata intelligenza del poeta e della sua epoca, che non ha piú ideali rigidi e dogmatici, può sorridere degli stessi miti irrazionali che crea e constata la varietà e volubilità della vita, il non rigoroso distacco fra saggezza e pazzia, che invece si scambiano e si mescolano fortemente nella vita dell’uomo. Ed essa – mentre ha pur precisi obbiettivi polemici: il moralismo e l’ascetismo puritano e ipocrita, le credenze dogmatiche e non verificabili nell’esperienza umana, e in particolare (su di una linea già viva nel Boccaccio) il mondo clericale piú volte satireggiato nel poema – serve piú generalmente, nella sua sfumatura di sorriso sereno e superiore, ad alleggerire e riequilibrare i toni appassionati o epici quando essi sembrano rompere l’armonica medietà della generale atmosfera del poema e a mediare il passaggio fra gli episodi e i toni, addensandosi in forme di musicale e non pedantesca saggezza in quella specie di corona di ariose sentenze morali che è costituita dalla maggior parte degli inizi dei canti.

Cosí nello stesso grande episodio della pazzia di Orlando, alle grandi ottave in cui l’Ariosto esprime il dolore straziante del paladino che ha definitivamente dovuto accettare la terribile verità dell’amore di Angelica per Medoro, seguiranno, senza stonatura e con agevole trapasso, quelle che descrivono le sue pazze e prestigiose avventure, i suoi grotteschi e comici scempi di pastori e contadini che si oppongono alla sua folle corsa. E quante volte – si pensi almeno alle gigantesche e titaniche avventure guerresche di Rodomonte che da solo assale Parigi – episodi che attingono grandiosità epica vengono, con la geniale agevolezza e suprema disinvoltura ariostesca, riequilibrati e svolti in toni grotteschi e bizzarri, in immagini e paragoni estrosi e sorridenti. D’altra parte occorrerà pur dire che, se l’ironia e il sorriso predominano nel poema e collaborano, come l’unione del naturale e del meraviglioso, a creare quella tonalità cangiante e iridata, quel ritmo saldo e volubile che sono essenziali alla particolare armonia, mossa e vitale del poema, sarebbe del tutto errato negare all’Ariosto la capacità di dar voce a motivi e ideali saldi e profondi, di costruire episodi che dimostrano la sua ricchezza e sicura esperienza di sentimenti nobili, appassionati, delicati e gentili troppo spesso considerati assenti in un’immagine falsa del grande poeta come solamente ironico e comico e invece in lui ben vivi, anche se privi d’ogni eccesso di sentimentalismo o di retorica eroica.

Si pensi, su di una direzione piú chiaramente epica, all’episodio della battaglia decisiva fra tre campioni cristiani (Orlando, Oliviero, Brandimarte) e tre campioni saraceni (Agramante, Sobrino e Gradasso) che si svolge (nel canto XLII) sullo sfondo nudo e silenzioso dell’isola deserta di Lipadusa, in un’atmosfera assorta e severa; in essa si muovono, gigantescamente stagliati, i personaggi eroici con gesti lenti e gravi, con un’energia eccezionale e solenne. E tutto è dominato dal senso incombente della morte, di un fato invincibile e pauroso, che si ripercuote poi, nel canto successivo, nel breve episodio, arricchito di toni elegiaci e funebri, quando Astolfo e Sansonetto, ricevuta la notizia della vittoria cristiana, ma rattristati dalla morte di Brandimarte, si presentano alla compagna di questo, Fiordiligi; ed essa, appena li vede giungere con il volto triste malgrado la grande vittoria, immediatamente intuisce la sorte dello sposo e cade a terra priva di sensi:

Tosto ch’entraro e ch’ella loro il viso vide

di gaudio in tal vittoria privo;

senz’altro annunzio sa, senz’altro avviso,

che Brandimarte suo non è piú vivo.

Di ciò le resta il cor cosí conquiso,

e cosí gli occhi hanno la luce a schivo,

e cosí ogni altro senso se le serra,

che come morta andar si lascia a terra.

O si pensi, su di un tono di elegia umanissima e profonda, all’episodio della morte di Zerbino, che già tanto colpí il De Sanctis e lo indusse ad esclamare: «Quanto cuore aveva l’Ariosto!».

Siamo nel canto XXIV, quando, per difendere generosamente le armi abbandonate da Orlando impazzito contro l’arrogante Mandricardo che se ne vuole impadronire, il gentile ed eroico Zerbino sostiene con il cavaliere maomettano un duello sfortunato, alla fine del quale è costretto a ritirarsi moribondo, per le gravissime ferite ricevute, e rimane cosí solo con l’amata Isabella. In questa situazione suprema di solitudine e di angoscia la narrazione si cambia in un dialogo fra i due amanti che è certo uno dei momenti piú alti e profondi della poesia ariostesca e di tutta la poesia rinascimentale, di cui quella ariostesca realizza ad un livello supremo la tensione spirituale-amorosa avvalorata da una situazione cosí concreta e drammatica, da un sentimento cosí pieno e reale, cosí nobilmente e pur «concretamente» umano.

Tutto è eletto, siglato da una gentilezza e nobiltà supreme e insieme voce di una esperienza umana che non cerca parole e modi eccezionali. Tutto è intenso e insieme melodicamente armonioso e anzi la lentezza pausata e composta del ritmo esalta tanto piú la struggente elegia del moribondo, fa vibrare tanto piú profondamente le parole che designano la sicurezza della morte vicina, la delicatissima allusione alla letizia di una morte in seno all’amata in una situazione diversa, il contrasto disperato di questa ipotesi con la realtà di una morte che è abbandono della donna ad una sorte oscura e paurosa, le conferme estreme di un amore che supera la morte, l’invocazione appassionata e casta delle bellezze della donna e dei ricordi di un intero legame amoroso:

– Cosí, cor mio, vogliate (le diceva),

dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora,

come solo il lasciarvi è che m’aggreva

qui senza guida, e non già perch’io mora:

che se in sicura parte m’accadeva

finir de la mia vita l’ultima ora,

lieto e contento e fortunato a pieno

morto sarei, poi ch’io vi moro in seno.

Ma poi che ’l mio destino iniquo e duro

vol ch’io vi lasci, e non so in man di cui;

per questa bocca e per questi occhi giuro,

per queste chiome onde allacciato fui,

che disperato nel profondo oscuro

vo de lo ’nferno, ove il pensar di vui

ch’abbia cosí lasciata, assai piú ria

sarà d’ogn’altra pena che vi sia. –

In questo ritmo pausato e solenne la risposta di Isabella, che assicura l’amato della sua fedeltà imperitura e promette la propria morte per non lasciarlo mai piú, è introdotta da un’ottava in cui la poesia elegiaca si esprime, prima che nelle parole della risposta, nella rappresentazione sublime della donna e del bacio ultimo da lei dato a Zerbino:

A questo la mestissima Isabella,

declinando la faccia lacrimosa

e congiungendo la sua bocca a quella

di Zerbin, languidetta come rosa,

rosa non colta in sua stagion, sí ch’ella

impallidisca in su la siepe ombrosa,

disse: – Non vi pensate già, mia vita,

far senza me quest’ultima partita...

Qui la poesia raggiunge il suo culmine e condensa tutta la sua forza tenera e limpida in quella altissima immagine della rosa che, ben lungi da un ornamento retorico estraneo alla situazione interna dell’episodio, ne evidenzia il colore sentimentale piú delicato e malinconico trasferito vivamente e musicalmente nel lento precisarsi dell’immagine perfetta e allusiva alle stesse condizioni di questa morte giovanile e tenera, struggente e lenta.

Cosí episodi tragici ed elegiaci trovano posto nel Furioso senza con ciò rompere e alterare la superiore atmosfera altamente serena e armonica che il grande poeta sa creare con l’alternarsi, la gradazione, l’agevole trapasso di episodi e toni diversi, rappresentando armonicamente tutte le dimensioni della vita dell’uomo, in una altissima sintesi mossa e mutevole della estrema varietà della realtà e della fantasia, in una capacità di tagli e prospettive narrativo-poetiche diverse: dagli episodi lunghi e complessi alle novelle vere e proprie e agli episodi minori in cui egli esercitò spesso un’arte come piú miniaturistica, con ritmi rapidi e abbreviati che tanto arricchiscono l’interesse narrativo e la ricchezza poetica del Furioso, contribuendo allo svolgimento dell’enorme massa di sentimenti, motivi e toni ora ironici e comici ora paradossalmente bizzarri ora pensosi e commossi che l’Ariosto trasferiva dall’esperienza spregiudicata, acuta e pur nobile e gentile della vita e della realtà al regno superiore della fantasia.

A questa suprema espressione del suo animo e della sua intuizione della vita e della storia del suo tempo, l’Ariosto giunse – come già accennavamo – con un lunghissimo e complesso lavoro, ispirato e tecnicamente abilissimo, che lo portò a rivedere e arricchire la prima redazione del poema (1516) nella seconda edizione del 1522 e soprattutto in quella, piú largamente riveduta e ampliata, del 1532, mentre tentava anche un’impostazione di fondo piú amaro e deluso in quei Cinque canti che a un certo punto interruppe per ritornare interamente al completamento del suo capolavoro.

E in quest’ultima fatica egli, mentre aggiungeva episodi che portavano il poema da quaranta a quarantasei canti (episodi di minore felicità, come quelli sulle avventure finali di Ruggero, Leone, ma anche episodi altissimi come quello dell’abbandono di Olimpia da parte di Bireno), rivedeva tutto il poema da un punto di vista linguistico-stilistico che accettava sostanzialmente le proposte del Bembo, nelle sue Prose della volgar lingua, del 1525, di una lingua letteraria nazionale modellata, per la poesia, sul grande esempio del Petrarca, e cosí eliminava o certi crudi latinismi o certe forme emiliane presenti nelle precedenti redazioni, soprattutto mirando insieme a dare al Furioso un carattere largamente nazionale e a dargli una lingua e uno stile piú organico, piú armonico, piú musicale, coerente alle sue fondamentali esigenze di armonia, di perfezione.

Cosí il Furioso riuscí a divenire insieme il capolavoro della sua grande fantasia e della sua arte complessa e instancabile e il capolavoro del Rinascimento nei suoi supremi ideali estetici ed umani.